LA LAUREA NON E' UN PEZZO DI CARTA

Written by Venerdì, 27 Gennaio 2012 14:56
SOLE24OREDue circostanze rendono oggi possibile e necessario discutere concretamente, forse per la prima volta, di abolizione del valore legale della laurea. L'Italia sta lavorando intensamente per rilanciare l'economia e per liberare le energie di un Paese troppo ingessato; allo stesso tempo, le norme su accreditamento e valutazione definitivamente varate la settimana scorsa dal Consiglio dei ministri in attuazione della riforma universitaria offrono le premesse indispensabili per dare corpo a un dibattito finora troppo astratto, visto che l'accreditamento costituisce l'unica alternativa credibile al valore legale.

 

 È utile in ogni caso evitare entusiasmi eccessivi o anatemi a priori: come spiega benissimo Sabino Cassese, «il tema del valore legale dei titoli di studio è una nebulosa. Esso non merita filippiche, ma analisi distaccate, che non partano da furori ideologici o da modelli ideali». Una nebulosa, appunto, cioè una stratificazione di norme dirette e indirette, non un semplice articolo di legge che basta cassare con un tratto di penna.

"Abolire" il valore legale - per strano che possa sembrare - è infatti un problema che riguarda solo indirettamente le università, perché la gran parte di quel "valore" è conferito alle lauree da norme sull'accesso alle professioni regolate o ai concorsi pubblici, oppure da regolamenti sui passaggi di carriera nelle amministrazioni statali. Abolire, o rivedere, questo coacervo di norme non intaccherebbe in alcun modo né il valore scolastico dei titoli (il fatto, per esempio, che serve una laurea triennale per accedere alla magistrale, come la licena elementare per iscriversi alle medie), né tantomeno l'obbligo, per gli atenei, di operare in un regime di autorizzazione e riconoscimento pubblici. Regime che, con le variabili del caso, esiste ovviamente in tutti i Paesi, anche i più liberali: per questo su internet offrono in vendita la laurea di Berkley (fasulla) ma non quella di Berkeley, università vera, autorizzata e accreditata.

La limpida distinzione tra valore scolastico ed extrascolastico della laurea era il cardine dell'impianto previsto dal testo unico del 1933, che separava in modo rigoroso il "valore di qualifiche accademiche" attribuito ai titoli di studio e l'abilitazione professionale conseguita invece tramite l'esame di Stato, cui, certo, si poteva essere ammessi solo in possesso della laurea. Nei decenni successivi, e, paradossalmente, a partire dalle leggi sull'autonomia universitaria del 1989, il confine tra queste due funzioni della laurea si è poco a poco confuso.

Proprio la legge sull'autonomia (la 168 del 1989), imponendo agli atenei «l'adozione di curricula didattici coerenti ed adeguati al valore legale dei titoli di studio rilasciati dall'università», prefigurava una sorta di subordinazione funzionale dei percorsi di studio all'esito finale, quello della spendibilità professionale racchiusa appunto nel concetto di "valore legale". Ancora più netta, in questo senso, la svolta rappresentata da una legge dell'anno successivo, la 341, che prevede l'adozione di decreti per individuare "i profili professionali per i quali... il diploma di laurea è titolo valido per l'esercizio delle corrispondenti attività, nonché le qualifiche funzionali del pubblico impiego per le quali il diploma di laurea costituisce titolo per l'accesso». È vero che questi decreti non sono poi stati emanati, ma il principio sancito si colloca agli antipodi rispetto al testo del 1933.

È dalle modifiche introdotte negli ultimi decenni che derivano, più o meno direttamente, gli eccessi poi esibiti a riprova della pericolosità del concetto di valore legale, prima fra tutte la possibilità, nel pubblico, di essere inquadrati automaticamente a un livello superiore se solo si consegue la laurea, stimolo a migliaia di deboli o debolissime lauree triennali "in convenzione" che garantiscono promozioni sul campo a prescindere dall'accertamento di effettive competenze acquisite grazie al titolo, oppure il punteggio anch'esso automaticamente attribuito al voto di laurea in alcuni concorsi, senza ponderazione qualitativa rispetto ai contenuti del piano di studi o alle competenze effettivamente dimostrate.

Ripulire il quadro normativo da alcune di tali storture consentirebbe certamente di evitare questi e altri problemi, e lascerebbe liberi gli atenei di impostare la propria programmazione didattica con maggiori margini di autonomia, ma potrebbe anche creare più spazio per le lauree triennali, oggi ancora sottovalutate, a torto, specie nel settore pubblico: difficile dare qualche chance in più ai giovani se li tiene sui banchi, nel migliore dei casi, tre anni più dei loro colleghi di altri Paesi. Fermo restando l'obbligo di autorizzazione ex ante, sarebbero poi l'accreditamento e la valutazione dei corsi e delle sedi a offrire a studenti, famiglie e datori di lavoro gli elementi di giudizio necessari per compiere le proprie scelte. Scelte, non va dimenticato, che sono effettivamente possibili solo in un sistema di borse di studio non solo ben finanziato, ma anche rivisto nei suoi presupposti culturali, perché oggi poco propenso, anche per la sua struttura regionale, a favorire la mobilità degli studenti.

"Abolire" il valore legale, sia chiaro, non rappresenta un toccasana miracoloso, ma rivederne limiti e funzioni in relazione all'accesso all'impiego pubblico e alla disciplina degli ordini professionali può contribuire a far tramontare la passione per il "pezzo di carta" in quanto tale e spingere invece a concentrarsi piuttosto sui contenuti e le opportunità offerte dagli studi universitari, che rischiano altrimenti di perdere peso come fattore (insostituibile) di mobilità sociale.

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